WALTER VELTRONI, IL MIO POLIZIOTTO BUONO ORA RISOLVE UN MISTERO DEL ’44

Per Walter Veltroni Villa Borghese, sterminato parco a forma di cuore nel cuore di Roma, è un luogo dell’anima ma anche un laboratorio in cui costruire bellezza e recuperare memoria. Il fondatore ed ex segretario del Pd, oggi scrittore e regista di successo, è cresciuto nel quartiere che costeggia parte della Villa. Da sindaco di Roma, ne promosse recupero e trasformazione con l’apertura di spazi culturali nella convinzione che «la bellezza non è per pochi». E quando, nel 2019, ha inventato il commissario Giovanni Buonvino non poteva che assegnargli un (inesistente) Commissariato di Villa Borghese. Ora arriva in libreria il quarto capitolo della serie di gialli, Buonvino tra amore e morte (Marsilio), la cui trama intreccia l’ambizione alla felicità del commissario con un episodio cruento realmente accaduto, il 31 maggio 1944, proprio a Villa Borghese.

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Veltroni, se ama tanto Villa Borghese perché ci ambienta efferati delitti? «Mi piaceva l’idea di un luogo estatico violato dal suo contrario, la violenza. Un contrasto che ha una grande forza narrativa».

Che le ha fatto di male Buonvino, che anche in questo episodio sfiora la felicità senza raggiungerla? «È uno un po’ malinconico, ironico, idealista, sognatore. Che però deve sempre combattere con la vita, nel lavoro, nelle relazioni umane. Nulla gli è regalato. Gli voglio bene perché è fragile e sicuro al tempo stesso, capace ed esposto. Quando sembra andargli bene poi c’è sempre qualcosa che non funziona».

Battuta: quindi è del Pd? «Non ho mai pensato di collocarlo politicamente. Semmai è un disilluso. Non gli piacciono certe cose del presente, la volgarità, anche nel parlare. Ha stilato un elenco di “parole proibite” sulla lavagna del commissariato, in cui si leggono “esperenziale”, “tutta la vita”, “narrazione” e le altre semplificazioni che avvelenano il pensiero. Lui chiama quell’elenco “la colonna infame”».

L’episodio precedente si chiudeva con un sogno d’amore infranto da colpi di pistola. Questo con un evento che rimescola ancora le carte del cuore di Buonvino. Sarà mai felice? «Lo è già: la felicità non è assenza di problemi ma disporre degli strumenti per contrastarli. Lui non si fa abbattere, non rinuncia e non va in depressione. Capisce, tesse, non odia. È un ragionatore».

A dispetto del mestiere, anche un benevolente. Il poliziotto buono funziona più di quello cattivo? «Da Antonio Manganelli, l’ex capo della Polizia cui ho dedicato il primo dei romanzi di Buonvino, a Franco Gabrielli a Lamberto Giannini ho sempre conosciuto persone come Buonvino. Se ispirazione ho tratto, l’ho tratta da loro: persone miti, colte, curiose, con un alto senso delle istituzioni. Essere poliziotti non coincide con l’essere sbirri ma col difendere le leggi dello Stato».

Nella trama, una storia vera che ha scovato sul gruppo Facebook Roma città aperta. Ma i social non erano il luogo in cui tutto si perde? «L’unica ragione per cui perdo tempo coi social è trovare storie: lì ci sono notizie che non avrebbero spazio in nessun altro posto e su nessun giornale. Ci sono gruppi che coltivano la memoria attraverso passioni specifiche, su qualsiasi cosa. Questo da un punto di vista è rassicurante, dall’altro dà l’impressione che non ci sia più nulla da cercare».

La storia di Buonvino sfiora gli ultimi anni di guerra, già protagonisti del suo romanzo La scelta. Perché ci torna sempre? «Perché li abbiamo rimossi. Dopo la Liberazione il Paese aveva bisogno di voltare pagina. Ma facendolo ha semplificato la storia degli anni tra il ‘43 e il ‘45. Quello fu il momento in cui ciascuno ha dovuto scegliere da che parte stare. Una scelta che ha qualcosa di tragico: tanti hanno creduto onestamente nel fascismo e improvvisamente si sono resi conto di che cos’era. Non tutto il consenso del fascismo era coartato. In quegli anni lì c’è qualcosa di morboso. Letterariamente, storicamente e politicamente è molto interessante».

Cosa possiamo dire della storia che racconta nel libro senza dirne troppo? «L’ha raccontata su Facebook il professor Antonio Areddu, che mi ha dato i documenti su questo borsaro nero, un millemestieri come ce ne sono tanti, che mise su un’impresa farmaceutica finta con cui faceva commercio di zucchero. A quattro giorni dall’ingresso degli americani a Roma, il 31 maggio 1944, lo hanno fucilato all’alba a Piazza di Siena, dentro Villa Borghese, presente il Questore, dopo un processo di tre giorni, con una sezione del tribunale speciale istituita ad hoc. Un epilogo abnorme e inspiegabile che restituisce la complessità di quegli anni».

Come si recupera quella complessità? «Abbiamo ridotto la tridimensionalità della vita al presente, recidendo il futuro perché ci pare una minaccia e non una possibilità, e il passato in quanto passato. Questo ha reso la vita frivola e velenosa. Serve profondità e quella la dà la memoria. E la consapevolezza che ci sono momenti in cui è necessario contrastare i sentimenti dominanti. Il fascismo non è “cattivo” per via delle leggi razziali del ‘38, è cattivo dall’inizio, perché aveva in testa l’idea di un regime. La libertà non va data per scontata perché ci sono nella storia momenti in cui la gente è stata disposta, come in quegli anni, a rinunciarci in cambio di rassicurazioni».

Perché inserire la storia in un romanzo “d’evasione”? «Perché l’evasione non esiste, nulla nel nostro mondo può essere separato dal resto: da Sanremo alla commedia all’italiana, tutto si interseca, dai gialli di Buonvino alle storie di guerra».

Marianna Aprile

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